violenza di genere

Colpevolizzazione della vittima di violenza di genere

Sono molto felice di aver preso parte all’iniziativa “Donne vittime di violenza: la rete, l’informazione, la cura”, a cura di Raffaella Zecchino e Rosa Schiavo, che mira al contrasto della violenza di genere attraverso la sensibilizzazione e l’informazione. Tre giorni, tre cicli di incontri video che visibili sulla pagina di CulturAttiva.

Questo su per giù il testo del mio intervento, il cui video è disponibile cliccando qui.
 

 

Buongiorno mi chiamo Marta Grasso e sono una psicologa e psicoterapeuta e fra i miei ambiti di competenza ci sono i traumi di natura relazionale, che è il motivo per cui mi è stato chiesto di  condividere con voi una riflessione sul tema della violenza di genere.

Quando parliamo di violenza di genere facciamo riferimento ad azioni molto varie che il più delle volte hanno un effetto traumatico su chi li subisce.
Qualunque evento incontrollabile, che faccia sentire la persona minacciata, in pericolo e soprattutto nella condizione di non controllare quello che le succede è un evento traumatico. Il pericolo può essere un pericolo di vita, legato alla sicurezza, ma anche alla perdita di qualcosa di molto importante, come la reputazione e l’immagine sociale.

Capite bene che non stiamo parlando solo di botte o stupri.

Quando la persona vive un evento traumatico, l’effetto che il trauma ha sulla persona non dipende solo dal tipo di evento ma anche da una serie di altri fattori che hanno il potere di rafforzare e peggiorare il trauma oppure al contrario che hanno l’effetto di mitigare l’impatto dell’evento.

Uno di questi fattori è la reazione del contesto relazionale, sociale, familiare della vittima.
Quando la reazione di fronte alla violenza è di protezione, accoglienza e legittimazione della vittima, l’evento ha un effetto meno traumatico, funziona come un balsamo.
Al contrario quando la reazione è di colpevolizzazione della vittima, cioè di condanna verso di lei, come se fosse un po’ anche colpa sua, ecco questo raddoppia l’effetto traumatico dell’evento.

La colpevolizzazione della vittima è una reazione sempre meno diffusa ma ancora troppo diffusa quando paliamo di atti di violenza molto evidenti, come le botte o lo stupro.
O meglio, è una reazione meno diffusa quando la coercizione, cioè l’abuso, la minaccia, la violazione del consenso è molto chiara.
Diventa invece sempre più diffusa quando la coercizione si fa meno evidente.

Faccio un esempio: se cammini per strada e ti aggrediscono, è meno probabile che verranno a dirti che è anche colpa tua. Ma se bevi e ti apparti col tuo aggressore, qualcuno sicuramente ti dirà che forse lo hai incoraggiato. Se stai con un uomo che ti picchia e non lo denunci o lo denunci e ritiri la denuncia, qualcuno ti dirà che stai sbagliando o non hai abbastanza coraggio.

La colpevolizzazione della vittima è frequentissima quando ci spostiamo nell’ambito delle molestie e del revenge porn, ovvero la diffusione di video intimi della partner o della ex fra amici o addirittura in rete. In questi casi, la reazione sociale è quasi sempre di colpevolizzazione: del tipo, nessuno ti ha costretto, se mandi foto nuda non stupirti se poi fai questa fine. La cronaca degli ultimi giorni è un chiaro esempio di questo.

La colpevolizzazione della vittima crea un effetto che nel linguaggio tecnico è chiamato vittimizzazione secondaria: significa che si fa vivere alla vittima per la seconda volta il trauma, il trauma raddoppia.

Che c’entra con la cura tutto questo? C’entra perché non è possibile una cura della vittima di violenza, se il contesto è colpevolizzante. La persona può fare terapia, gruppi ma se il contesto la isola, la giudica, la considera responsabile, non c’è cura possibile.

Siamo abituati a considerare la cura una responsabilità della vittima: è una cosa che deve fare lei, perché la violenza che ha subito è un suo problema. La verità è che la violenza di genere è un fenomeno che riguarda tutti e tutte e che tutti e tutte abbiamo la responsabilità di interrompere. Per farlo dobbiamo cambiare punto di vista e considerarci tutti parte del problema e tutti parte della soluzione, che significa prendere una posizione aperta, chiara, non girarci dall’altra parte, una posizione di condanna senza eccezioni verso chi commette azioni che creano un danno alle persone, in questo caso alle donne.

E’ un invito che rivolgo soprattutto agli uomini, che spesso non compaiono quando si parla di violenza di genere oppure si fanno sentire per difendersi e dire che non tutti gli uomini sono uguali, io non faccio queste cose.

Per fortuna è così ed è evidente, ma non è una cosa che aiuta a risolvere il problema. Chiederci tutti e tutte cosa posso fare io in prima persona, qual è la mia responsabilità nel processo di cura, nel creare una cultura che non colpevolizza le vittime, questo può fare tanta differenza.

Grazie per la vostra attenzione.

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