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Interesse del minore, potestà genitoriale e provvedimenti giudiziari a tutela del minore

Data la grande frequenza di separazioni (e divorzi), capita sempre più spesso di sentir parlare persone e mass media di “tutela” e “interesse del minore”, “potestà genitoriale” (talvolta ancora impropriamente chiamata “patria potestà”), “affido”, “pregiudizio per il minore”. Inoltre i casi “mediatici” di allontanamento di minori dalle famiglie, che ricorrono in televisione negli ultimi anni, hanno acceso nella popolazione un vivo interesse e una forte curiosità rispetto all’utilità che abbiano – e alle modalità che adottino – certi provvedimenti giudiziari così drastici e tanto delicati.

Questo post vuole essere un ausilio per chi desideri comprendere tali tematiche, e una mappa per orientarsi nella complessità della normativa vigente.

Che cos’è l’ “interesse del minore”

Per comprendere l’istituto della “potestà genitoriale” e il senso dei provvedimenti giudiziari a tutela dei minori, è necessario prima definire il cosiddetto “interesse del minore”, poiché tutte le norme in materia di potestà e diritti-doveri dei genitori mirano proprio a tutelare la prole.
Il diritto offre una serie di elementi che contribuiscono alla sua definizione, rintracciabili innanzitutto nella Costituzione e nel Codice Civile, mentre la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo[1] può essere considerata come una mappa generale dei diritti – appunto gli interessi – del minore, che la famiglia è chiamata a soddisfare e che lo Stato è chiamato a tutelare.

Ad esempio, il principio secondo della suddetta Dichiarazione recita: “il fanciullo deve beneficiare di una speciale protezione e godere di possibilità e facilitazioni, […] in modo da essere in grado di crescere in modo sano e normale sul piano fisico, intellettuale, morale, spirituale e sociale, in condizioni di libertà e di dignità. […]”. Altrettanto esemplificativo è il principio sesto: “Il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno di amore e di comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e morale. Salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre. La società e i poteri pubblici hanno il dovere di aver cura particolare dei fanciulli senza famiglia o di quelli che non hanno sufficienti mezzi di sussistenza. È desiderabile che alle famiglie numerose siano concessi sussidi statali o altre provvidenze per il mantenimento dei figli”.
I principi succitati condividono con le norme costituzionali e civilistiche dei punti chiave, quali il mandato alla famiglia – ovvero ai genitori – ad offrire cura e protezione alla prole e quello allo Stato di vigilare che ciò avvenga e intervenire in caso contrario a garanzia dei diritti del bambino. All’interno della Costituzione, difatti, l’art. 30 sancisce che “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”, così come l’art. 147 del Codice Civile – operando una specificazione rispetto al dettato costituzionale – individua i limiti entro i quali la responsabilità genitoriale può essere esercitata nel rispetto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.[2]
In altre parole, il Legislatore ha voluto sottolineare come il potere attribuito ai genitori sia volto a realizzare gli interessi della prole: questo – che dal punto di vista normativo è identificato con il concetto di “potestà” – può essere meglio tradotto in termini di “responsabilità genitoriale”, così come indicato dal Regolamento del Consiglio d’Europa del 27 novembre 2003 n. 2201. Quello di “responsabilità” è difatti un concetto che include non solo il diritto-dovere del genitore di garantire educazione, istruzione e mantenimento alla prole, bensì anche il più ampio concetto di protezione del minore.

L’interesse di quest’ultimo si realizza altresì attraverso la garanzia del rispetto del suo diritto a “crescere ed essere educato nella propria famiglia” – come indicato dalla legge 184/83 modificata dalla L. 149/01 –, aspetto particolarmente rilevante in tutti quei casi in cui i genitori non siano in condizione di adempiere all’espletamento delle propria “responsabilità”: in tali circostanze, difatti, lo Stato può intervenire, al fine di garantire l’interesse del minore, mediante la dichiarazione di adottabilità dello stesso. L’art. 8 della L. 184/83 recita: “Sono dichiarati in stato di adottabilità […] i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio”.

Fatta questa premessa, di seguito si approfondirà il concetto della “potestà genitoriale” – così come è definita dalla normativa -, nonché le modalità e gli istituti con cui lo Stato esercita un controllo su di essa.

 

La potestà genitoriale e le sue limitazioni

La “potestà genitoriale” può essere definita come “l’insieme dei poteri concessi al titolare sulla persona e sul patrimonio del figlio minore o nascituro nell’interesse del medesimo”; ha dunque come esclusiva finalità l’ “interesse dei figli” (Moro, 2002). Tale complesso di diritti e di doveri, attribuito ai genitori dalla legge a tutela della prole minorenne non emancipata, assolve alla funzione di favorire una crescita psico-fisica sana e armonica, attraverso l’espletamento dei doveri di istruzione, educazione e mantenimento, previsti agli art. 30Cost., 147 e 315 e Cod. Civ.
In questo senso, se per potestà s’intende l’assunzione delle responsabilità derivanti dallo svolgimento delle funzioni di indirizzo della vita del minore, i contorni di tale istituto sono da inquadrarsi nell’ottica della prevalenza dell’aspetto dei doveri e delle responsabilità genitoriali rispetto a quello dei diritti.
Questo risulta più evidente se si considera la modalità con cui l’Autorità Giudiziaria esercita – attraverso il Tribunale per i Minorenni – il controllo giudiziario sulla potestà, attraverso azioni che comportano affievolimento, sospensione e decadenza della stessa: queste non hanno in realtà carattere sanzionatorio, poiché trovano ragione di essere nella garanzia dell’interesse del minore.

Queste azioni – in presenza di “pregiudizio” del minore e in relazione alla gravità di questo – possono essere dirette all’esercizio della potestà oltre che alla titolarità, configurando scenari differenti sia in termini di limitazioni alla funzione genitoriale che di durata delle stesse.
I provvedimenti sull’esercizio della potestà genitoriale – che non implicano necessariamente la perdita della titolarità – si attuano in tre casi:
1. incapacità, lontananza o altro impedimento di un genitore (art. 317, Cod. Civ.), che precluda allo stesso l’esercizio della potestà;
2. separazione, divorzio o annullamento (art. 317, comma 2, Cod. Civ.), secondo quanto disposto dall’art. 155;
3. figlio naturale non convivente (art. 317 bis, Cod. Civ.): in casi di affido esclusivo ad un genitore, all’altro resta il potere di vigilare sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio minore; in casi di affido condiviso, la potestà è esercitata da entrambi i genitori.
Nei casi succitati, i provvedimenti diretti a disciplinare l’esercizio non intervengono sulla titolarità, che difatti resta al genitore, quindi traducendosi in doveri (mantenimento, educazione), diritti o poteri (educazione “straordinaria”, vigilanza). Un esempio è costituito dalla limitazione della potestà genitoriale in casi di separazione e divorzio: come si è detto questa situazione, non comportando una decadenza della potestà bensì una sua semplice limitazione, non espropria il genitore della titolarità dei suoi poteri ma solo dell’esercizio; ciò implica che, tranne apposite deroghe disposte dal Giudice, le scelte straordinarie relative alla vita del minore verranno prese da entrambi i genitori, sebbene uno dei due sia stato per provvedimento dell’Autorità Giudiziaria limitato nell’esercizio della potestà genitoriale.[4]
Diversamente, la perdita della titolarità implica sempre l’interruzione dell’esercizio della potestà, a beneficio dell’altro genitore o di un Tutore. I provvedimenti emessi in questi casi possono essere più o meno drastici, a seconda della gravità del “pregiudizio” rilevato nel caso specifico e sono sostanzialmente due: la sospensione e la decadenza.
Laddove il genitore trascuri i doveri o abusi dei poteri[5] – oppure quando le caratteristiche di personalità e il comportamento conseguente si riflettano negativamente sullo sviluppo del minore, come nel caso di inadeguatezza educativa per deficienze culturali o malattia mentale[6] –, può essere emesso il provvedimento di decadenza della potestà. Questa, regolata dagli art. 316 e 330 c.c., interviene su ogni aspetto della titolarità e dell’esercizio.
In situazioni meno gravi può essere emesso provvedimento di sospensione della potestà, in particolare quando “la condotta di uno o entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza ma appare comunque pregiudizievole al figlio”.[7]
Riprendendo quanto detto, se da una parte l’art. 30 della Costituzione riconosce ai genitori il diritto-dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, “nei casi di incapacità la legge provvede che siano assolti i loro compiti”.[8]

 

Provvedimenti attuati in caso di pregiudizio per il sano sviluppo del minore

A fronte di tale cornice normativa, la valutazione delle competenze genitoriali ad opera di un esperto (un ausiliario del Giudice, il cosiddetto CTU – Consulente Tecnico d’Ufficio) risulta utile non solo a stabilire il grado di “pregiudizio” cui il minore è esposto, ma anche ad identificare il provvedimento più idoneo al caso specifico.
I casi in cui il bambino è coinvolto, che presentano connotazioni di gravità differenti e che richiedono l’emissione di appositi provvedimenti, sono tre:[9]
1. il primo è relativo alle situazioni in cui il minore sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo e i genitori siano in grado di collaborare con i Servizi Sociali. Poiché la situazione di pregiudizio (legata ad incapacità materiale o educativa della famiglia) risulta reversibile e le capacità genitoriali sono valutate come potenzialmente consone nonché recuperabili, l’intervento mira a promuovere e sostenere i rapporti del minore con la famiglia. I Servizi dispongono un progetto di intervento, che può prevedere il temporaneo allontanamento del bambino dalla famiglia e la sua collocazione – in regime di affido – ad un’altra in grado di provvedere ai suoi bisogni, oppure ad un singolo, ad una comunità di tipo familiare o istituto di assistenza.
2. Il secondo è relativo alle situazioni in cui “uno o entrambi i genitori violano più o meno gravemente i doveri parentali o tengono una condotta comunque pregiudizievole per il minore”,[10] la quale non è però tale da compromettere irreversibilmente il suo diritto a crescere ed essere educato nella sua famiglia di origine.
I provvedimenti da emettersi in presenza di tale fattispecie possono variare dalla predisposizione di un intervento di sostegno ad opera dei Servizi Sociali all’affidamento familiare del minore (ad esempio, ad un parente ritenuto idoneo).
3. L’ultimo, il più grave, è relativo alla situazione in cui si ravvisi la mancanza di assistenza morale e materiale anche da parte dei membri della famiglia estesa, dunque di uno stato di abbandono del minore. La Corte di Cassazione[11] ha chiaramente espresso la necessità che le “gravi ragioni” che impediscono ai genitori e parenti di assicurare “irreversibilmente una normale crescita e adeguati riferimenti educativi al minore” vadano individuate e “rigorosamente accertate e provate”.
In altre parole, in tali casi è richiesta una valutazione della condizione familiare, educativa e psicofisica del minore, nonché del legame fra questa e l’incapacità ad adempiere alla funzione genitoriale della sua famiglia.
La necessità di accertare e provare rigorosamente la presenza di un grave pregiudizio – tale da impedire irreversibilmente lo sviluppo sano del bambino – è dovuta all’incisività dei provvedimenti che si vanno ad emettere in tali casi.
Gli interventi a protezione del minore in una condizione di grave pericolo per la propria integrità fisica e psichica sono attuati dalla pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, e prevedono il collocamento del bambino in luogo sicuro sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione.[12]
Uno fra questi è l’affidamento (a famiglia, singolo, comunità familiare o istituto di assistenza privato/pubblico), idoneo nelle prime due situazioni succitate, ovvero quelle in cui il pregiudizio sia reversibile. La legge[13] ne sancisce una durata massima di 24 mesi – prorogabile solo dal Tribunale per i Minorenni – al termine dei quali il procedimento è sottoposto a revisione giudiziaria: in altre parole, al compimento del periodo suddetto, il minore può essere affidato alla propria famiglia, rimanere presso i terzi affidatari oppure essere dichiarato in stato di abbandono, e dunque adottabile.
L’adozione è invece quell’istituto giuridico che consente di garantire al minore in grave stato di abbandono morale e materiale, il diritto a vivere in una famiglia diversa da quella biologica. Citando la L. 184/1983: “sono dichiarati in stato di adottabilità […] i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio. La situazione di abbandono sussiste […] anche quando i minori si trovino presso istituti di assistenza pubblici o privati oppure comunità di tipo familiare ovvero siano in affidamento familiare”. Praticamente, lo stato di abbandono si configura allorquando dal comportamento dei genitori emergano “carenze educative, abitudini di vita disordinate, indizi di una consapevole negazione dei bisogni del minore e maltrattamenti continuati a suo danno”.[14]
La legge succitata prevede altresì che il Tribunale, ricevuto il ricorso, provveda all’apertura di un procedimento relativo allo stato di abbandono del minore e che all’occorrenza disponga accertamenti sulle condizioni dello stesso, sull’ambiente in cui ha vissuto e vive al fine di verificare lo stato di abbandono.
A conclusione delle indagini, lo stato di adottabilità del minore può essere dichiarato dal Tribunale per i Minorenni quando:
a) i genitori e i parenti convocati non si sono presentati senza giustificato motivo;
b) l’audizione dei soggetti ha dimostrato il persistere della mancanza di assistenza morale e materiale e la non disponibilità ad ovviarvi;
c) le prescrizioni ai sensi dell’art. 12 sono rimaste inadempiute per responsabilità dei genitori.[15]
Occorre infine specificare che, in ossequio a quanto espresso dall’art. 30 Cost., con la sentenza che dichiara il minore in stato di adottabilità, il Tribunale per i minorenni nomina il tutore,[16] che rappresenta il minore in tutti gli atti civili che lo coinvolgono e che ne amministri i beni.


NOTE

[1] Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, approvata il 20 novembre 1959 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e revisionata nel 1989.

[2] Art. 315 bis, Cod. Civ., Diritti e doveri del figlio: “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”.

[4] Cigoli, Gulotta, Santi (2007), “Separazione, divorzio e affidamento dei figli”, Giuffrè ed.

[5] Art. 330 Cod. Civ., Decadenza della potestà sui figli.

[6] T.M. Milano, 17 luglio 1974

[7] Art. 333 Cod. Civ., Condotta del genitore pregiudizievole ai figli.

[8] Art. 30 Costituzione.

[9] Legge 28 marzo 2001 n. 149 
Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori»,
nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile,pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 26 aprile 2001, n. 96

[10] Artt. 330-333 Cod. Civ.

[11] Cassazione, 14 aprile 2006 n. 8877, in “Diritto di famiglia e delle persone” n. 4, ottobre-dicembre 2006.

[12] Art. 403 Cod. Civ., Intervento della pubblica autorità a favore dei minori.

[13] Legge 28 marzo 2001 n. 149
Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori»,
nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile,pubblicata in Gazzetta Ufficiale del 26 aprile 2001, n. 96.

[14] Legge 4 maggio 1983, n. 184, “Diritto del minore ad una famiglia”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 17 maggio 1983, n. 133.

[15] Ibidem.

[16] Artt. 343-389 Cod. Civ.

 

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